G.M.
M
i trovo oggi, a malincuore, costretto a rompere il silenzio. Non lo faccio per vanità, né per
desiderio di replica sterile. Lo faccio per amore della verità. Lo faccio per rispetto verso una disciplina
che ho servito per tutta la vita, con passione, sacrificio e dedizione integrale. E lo faccio perché non
posso più tollerare che l’ingratitudine, la meschinità e la falsificazione della memoria accademica
continuino a camminare impunite sulle spalle degli uomini e delle donne che questa disciplina l’hanno
fondata, sostenuta e nutrita. Mi rivolgo a te, e lo faccio con la franchezza che mi è propria.
Mi rivolgo a te non perché tu sia l'unica a portare il peso della deriva morale che ha infettato le
nostre istituzioni universitarie, ma perché sei divenuta, tuo malgrado o tuo disegno, simbolo esatto di
una certa degenerazione: quella dello studioso che sale in cattedra calpestando le mani di chi l’ha
sostenuto, dell’intellettuale che rinnega le sue origini, del collega che si fa scudo del potere accademico
per rimuovere ogni traccia di debito intellettuale. Hai avuto l’ardire – o meglio, l’infelice leggerezza –
di definirmi dannoso per l'immagine della papirologia in Italia. Tu. Proprio tu. La stessa persona che ho
invitato, incoraggiato, sostenuto, in ogni fase della sua carriera. La stessa che ho fatto salire sulle mie
navi editoriali permettendoti visibilità, contatti, spazi, occasioni. Tu, che all’inizio degli anni Novanta
faticavi a trovare un posto in cui contare, e che grazie alla mia insistenza hai potuto presentare
interventi nei convegni, curare volumi, accedere a fondi e istituzioni che, altrimenti, ti sarebbero rimasti
preclusi.
Chi eri prima che il mio nome aprisse le porte anche al tuo? Quanta parte della tua carriera – e
lo dico con amarezza, non con vanità – è stata costruita nei contesti che io stesso ho creato, difeso e
popolato? Non hai forse pubblicato a più riprese sotto la mia curatela, nei progetti che io stesso
dirigevo, nei repertori e nei fascicoli che portavano la mia impronta? Non hai forse condiviso –
beneficiandone – ogni singola rete accademica che io ho pazientemente intessuto in decenni di
lavoro? E ora, con una virata codarda e irriconoscente, sputi nel piatto che ti ha nutrita, con una frase
tanto sprezzante quanto storicamente falsa. Perché se davvero io fossi “dannoso” per l'immagine della
papirologia italiana, allora tu ne saresti la prima beneficiaria perché la tua ascesa ha coinciso con la mia
presenza. Non con la mia assenza. Quello che rende la tua condotta non solo ingiusta, ma
profondamente meschina, è ciò che hai fatto – o meglio, non hai fatto – negli ultimi anni. Quando
alcuni colleghi, con genuino affetto e riconoscenza, hanno proposto la curatela di un volume in mio
onore, hai accettato inizialmente l’incarico. Hai dato il tuo nome, hai preso parte alle prime discussioni,
hai persino lodato l’iniziativa. Ma quando hai fiutato che quell’omaggio avrebbe potuto scalfire la
narrazione che avevi costruito su di me – quella del professore “scomodo”, “superato”, o peggio
ancora, “dannoso” – hai abbandonato il progetto come una ladra nella notte. Senza spiegazioni. Senza
dignità. Hai lasciato i colleghi da soli. Hai lasciato dietro di te solo l’eco della tua paura, paura che quel
volume potesse ricordare al mondo accademico quanto ti sei nutrita della mia opera. Quanto devi a chi
oggi rinneghi. E non è tutto. L’elenco delle tue meschinerie silenziose è lungo. Hai fatto della tua
posizione accademica uno strumento di riscrittura selettiva della memoria disciplinare. Un’epurazione
lenta, strisciante, vigliacca. Non di idee, ma di nomi. Il mio nome, in particolare. Eppure io non ti ho
mai negato nulla. Né consigli, né lettere di presentazione, né spazi di ricerca. Ero lì quando nessuno ti
conosceva. Ero lì quando la tua bibliografia si poteva contare sulle dita di una mano. Ero lì quando i
tuoi stessi colleghi ti ignoravano. E ora che sei salita al trono, pretendi di cancellare chi ti ha costruito
la scala? Non ti rimprovero di aver criticato – se mai fosse stato fatto con intelligenza – alcuni aspetti
della mia produzione. Ti rimprovero l’ingratitudine. Ti rimprovero la viltà. Ti rimprovero l’ipocrisia. E
soprattutto ti rimprovero il tentativo di riscrivere la storia per autoincoronarti regina di un mondo che ti
ha solo accolto, non generato. Chi tradisce la verità, alla lunga, tradisce anche sé stesso. E la verità è
questa: la papirologia italiana non ha mai avuto un nemico nel sottoscritto. Ma forse ne ha uno in te,
che pretendi di far credere che sei arrivata dove sei per meriti solitari, e non grazie anche al lavoro,
all’influenza, all’esistenza stessa di coloro che oggi vuoi cancellare. Concludo questo scritto con un
pensiero che non è vendetta, ma ammonimento. L’accademia dimentica in fretta, ma i documenti
restano. Le lettere restano. Le pubblicazioni restano. Le testimonianze restano. E soprattutto, restano gli
allievi: quelli che sanno distinguere il valore dalla vanità, l’autorità dalla prepotenza, la fedeltà dalla
convenienza.
A loro lascio il compito di giudicare. Io, per parte mia, non dimentico.
Rosario Pintaudi
(Pdf)
Inimicitia Papyrologorum (Introduzione)